Le responsabilità delle Big Tech
Napoli, 28 Gennaio 2025
Esmeralda Mameli
Il crescente coinvolgimento delle aziende tecnologiche nei conflitti militari pone una domanda fondamentale: dove finisce l’etica aziendale e dove inizia la complicità? Microsoft, Google, Amazon e altre compagnie tecnologiche operano in un contesto globale dove gli interessi economici spesso prevalgono sulle questioni morali. Gli enormi profitti derivanti dai contratti con governi e forze armate rendono difficile stabilire un confine tra il semplice fornitore di servizi e il co-protagonista di un conflitto.
La mancanza di trasparenza nelle dinamiche dei contratti – come dimostrato dalle rivelazioni di Drop Site e The Washington Post – rende quasi impossibile per il pubblico valutare l’impatto reale che queste tecnologie hanno sui territori interessati, specialmente in aree come Gaza, già duramente colpite dalle politiche di sorveglianza e controllo.
L’assenza di una normativa internazionale vincolante che regoli l’uso delle tecnologie avanzate in contesti di conflitto rappresenta un vuoto pericoloso. Attualmente, le Big Tech sono libere di negoziare contratti con governi ed eserciti senza dover rispondere di eventuali abusi legati all’uso delle loro piattaforme. Questo vuoto normativo lascia spazio a scenari dove la sorveglianza di massa e l’uso improprio dell’intelligenza artificiale possono diventare la norma, con conseguenze devastanti per i diritti umani e la privacy globale.
Un passo avanti potrebbe essere rappresentato dall’introduzione di codici etici aziendali più rigorosi e di meccanismi di controllo indipendenti che vigilino sull’applicazione delle tecnologie in contesti militari. Tuttavia, è necessaria anche una maggiore pressione da parte dell’opinione pubblica e dei governi internazionali per richiedere trasparenza e responsabilità.
Israele, con il suo sistema tecnologico avanzato e la stretta integrazione tra pubblico e privato, rappresenta un esempio di come la tecnologia possa essere impiegata in modo strategico per consolidare il controllo su territori occupati e per affrontare le sfide militari. Ma lo stesso modello potrebbe essere replicato in altre aree geopolitiche, ampliando il divario tra potenze tecnologiche e nazioni meno sviluppate.
Questo scenario apre un ulteriore dibattito: è giusto che aziende private abbiano il potere di influenzare le dinamiche geopolitiche? E come garantire che i loro strumenti non vengano usati per scopi repressivi?
Le recenti rivelazioni devono servire da campanello d’allarme per i cittadini e le istituzioni. È essenziale: promuovere un dialogo internazionale su etica, tecnologia e conflitti; richiedere maggiore trasparenza da parte delle Big Tech sui contratti stipulati con governi ed eserciti; implementare sanzioni contro le aziende che forniscono tecnologie utilizzate per violare i diritti umani.
Le Big Tech stanno assumendo un ruolo sempre più centrale nei conflitti moderni, fornendo strumenti che, sebbene nati per fini innovativi, possono trasformarsi in armi di controllo e sorveglianza. Il caso israeliano mette in luce un problema sistemico: la mancanza di trasparenza e regolamentazione globale. Per evitare che queste dinamiche sfuggano completamente al controllo, è necessario agire subito, imponendo limiti chiari all’uso delle tecnologie nei contesti militari e proteggendo la privacy e i diritti umani a livello internazionale.
C’è da chiedersi quali garanzie può offrire l’Europa per evitare che infrastrutture locali vengano sfruttate per scopi bellici? E ancora, i consumatori hanno il diritto di conoscere in che modo le aziende tecnologiche utilizzano i loro dati e infrastrutture?