Cultura

Il Primo Motore e la Nostra Sete di Eternità

Riflessioni su Aristotele, il tempo e la spiritualità nel mondo contemporaneo

17 Aprile 2025

Sharon Persico

Ciò che vien primo nella serie è sempre l’ottimo o ciò che equivale all’ottimo“, scrive Aristotele nella Metafisica, Libro XII. È l’affermazione di un ordine implicito nella realtà, di una gerarchia naturale fondata sulla qualità e non sulla quantità, sull’essenza e non sull’apparenza. Il Primo Motore, secondo Aristotele, muove tutte le cose non per contatto o forza fisica, ma come oggetto d’amore: attrae per la perfezione della sua esistenza. È l’ente che vive eternamente nello stato più eccellente, quello che a noi è concesso solo per pochi, rari momenti.

In questa idea si condensa una delle intuizioni più alte del pensiero filosofico occidentale: l’essere supremo è anche il più desiderabile, non per comando ma per attrazione. Il movimento dell’universo, delle anime, delle cose, è una tensione verso l’ottimo, verso il pienamente compiuto, verso ciò che “è” nella sua pienezza. Eppure, nella realtà contemporanea, questa visione appare remota. Viviamo immersi in un mondo che ha invertito il paradigma: ciò che viene prima non è l’ottimo, ma spesso il più rumoroso, il più rapido, il più visibile. Il tempo non è più un cammino verso la contemplazione, ma una corsa contro qualcosa. Contro la scadenza, contro la vecchiaia, contro l’irrilevanza.

La concezione aristotelica del tempo e della vita divina implica una distinzione implicita tra chronos, il tempo lineare, sequenziale e quantitativo e kairos, il tempo della qualità, dell’opportunità, dell’attimo che contiene l’eternità. Il Primo Motore vive eternamente nel kairos, nel presente assoluto. Noi, invece, sfioriamo questa dimensione solo talvolta: in un gesto d’amore autentico, nella contemplazione della bellezza, nell’intuizione improvvisa di una verità. Sono questi i momenti in cui il nostro cuore si ferma e il tempo pare aprirsi su una profondità più vasta. Sono anche i momenti in cui, secondo Agostino, l’anima inquieta trova una breve tregua nel suo desiderio di infinito.

Questa tensione tra l’essere e il divenire, tra la perfezione eterna e la frammentarietà del vivere, non è esclusiva del pensiero greco. Plotino descriverà l’Uno come fonte di tutte le cose, che emana per necessità senza perdere sé stesso. L’intera tradizione neoplatonica vedrà nella contemplazione e nel ritorno all’origine il senso ultimo della vita. Ma persino nel pensiero orientale, in forme molto diverse, emerge un nucleo simile: il Brahman nell’induismo, lo ātman come identità profonda e immutabile dell’essere, o il vuoto luminoso del buddhismo zen, dove la vera pace si raggiunge solo nel superamento dell’ego e nella presenza assoluta. Anche lì, il tempo cronologico perde significato; solo l’“adesso” contiene la verità.

Nel mondo attuale, dove l’identità è spesso costruita sulla performance e sulla visibilità, il modello dell’essere che “è” senza dover dimostrare nulla, che muove tutto senza muoversi, è un’alternativa potente. Il Primo Motore aristotelico può diventare metafora di una nuova spiritualità laica, non fondata su dogmi, ma sulla qualità dell’essere. In un’epoca dominata dal fare compulsivo, dal consumo accelerato, dalla distrazione perpetua, la contemplazione diventa un atto rivoluzionario. Fermarsi, essere presenti, vivere l’istante come se fosse eterno, sono gesti semplici, ma profondamente contrari alla logica del sistema.

Anche la psicologia contemporanea ha colto qualcosa di questa verità. Mihály Csíkszentmihályi ha descritto lo stato di flow come uno stato in cui la persona è totalmente immersa nell’attività che sta svolgendo, in equilibrio tra sfida e competenza. In questo stato, si perde la nozione del tempo, del sé egoico e si sperimenta una forma di benessere profondo. È una versione moderna e secolarizzata della contemplazione, non più rivolta a Dio, ma comunque orientata verso un “ottimo” interiore, un’esperienza piena di senso.

La filosofia del Primo Motore non ci parla solo di Dio, ma dell’uomo. Ci dice che l’eccellenza non si misura in termini di risultati, ma di pienezza. Che ciò che è immobile, nel senso di pienamente se stesso, è più potente di ciò che agisce senza sapere perché. Che l’amore, come attrazione verso ciò che vale, è più forte della forza bruta. E ci ricorda che la nostra inquietudine, il nostro cercare, il nostro desiderare, non sono errori, ma tracce di un’origine perduta, o di un fine da raggiungere.

E forse è proprio in quei momenti silenziosi, sottratti alla fretta del mondo, che avvertiamo qualcosa di simile a ciò che Aristotele chiamava “vita eccellente”. Un istante in cui smettiamo di inseguire e ci lasciamo attrarre. Un istante in cui il cuore si fa quieto, e lo sguardo diventa limpido come quello dei bambini o dei saggi. In quei frammenti di eternità, in cui ci sentiamo presenti, vivi e pieni, forse tocchiamo davvero il senso ultimo di ogni cosa: non possedere, non conquistare, ma semplicemente essere.

Nel tempo dell’accelerazione globale, della performance come religione laica, della spiritualità mercificata o disinnescata, riscoprire l’essere come centro della vita è una scelta radicale. Significa resistere, senza rumore, all’impero del rumore. Significa scegliere la profondità invece della superficie, la pienezza invece del riempimento, la luce invece del riflesso.

Non saremo mai il Primo Motore, ma possiamo riconoscerne il richiamo. In una preghiera sussurrata, in un gesto gratuito, in un pensiero che ci attraversa nel silenzio, in una bellezza che ci commuove senza motivo. E se imparassimo a vivere cercando quel tempo che non passa, quel centro che non vacilla, quella vita che non consuma — forse potremmo, anche solo per poco, accostarci a quel vivere eccellente che non conosce fine.