Africa – La preghiera-sfida di Traoré a Papa Leone XIV
Dall’Africa una “contro-omelia della liberazione.” Denuncia e invocazione, per chiedere giustizia e verità alla Chiesa cattolica.
17 Maggio 2025
Esmeralda Mameli
“A Sua Santità Papa Roberto Francesco.
Non le scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste.
Non le scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito, indomito.
Ora lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione. E in questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige, perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta guardando.
Santità, noi africani conosciamo il potere della croce. Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie. Abbiamo costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro sangue.
Ma conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito seppellire: che la Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano incatenati sulla terra.
E anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del ferro, ma del silenzio. Dell’indifferenza di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità.
Quindi chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà diverso?
Sarà lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro profetico? Sarà il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per fotoricordi, ma che osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle baraccopoli?
Vede, Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza. Non sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico. Non mi hanno insegnato la diplomazia a Parigi. Ho imparato la leadership in trincea, tra la gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza.
Guido una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di stare zitti. Ci è stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli per essere sovrani, troppo instabili per resistere. Ma glielo dico con il tuono degli antenati nella voce: abbiamo smesso di chiedere il permesso di esistere.
Abbiamo smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri minerali mentre predicano la moralità. E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida dell’Africa perché la politica è scomoda.
Santità, [non] parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo dominato. L’Africa non è un continente da compatire, siamo un continente di profeti. Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e assassinati per aver osato sfidare l’impero.
E lei, ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti? O sarà anche lei prigioniero della politica?
Non abbiamo bisogno di altre banalità. Non abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata.
Non abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi che essi non hanno fabbricato.
Non abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra.
Ciò di cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro il comunismo.
Un Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto dalla distruzione dell’Africa.
Lei conosce gli insegnamenti di Cristo. Sa che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute. Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace” ma non disse mai “Beati i pacifinti”.
Quindi le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue operazioni segrete nel Sahel?
Condannerà i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle nostre foreste? Smaschererà l’avidità che si ammanta di carità? La diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo succedere, lo viviamo.
Sua Santità, non le chiedo di essere africano.
Le chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti. E’ difendere i deboli pagandone il costo.
Mi permetta di parlare chiaro. Il Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre ogni confine.
Ma il vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia.
Anche quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita a guardare dal basso: ci stiamo sollevando.
Stiamo sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte del diritto canonico.
Dov’era la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari spalleggiati dall’estero?
Dov’era la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace?
Dov’era la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario Internazionale ha soffocato le nostre economie?
Quando i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la sottomissione?
Non ci dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice.
Non ci dica di pregare mentre le nostre preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni. Non parli di pace senza nominare i profittatori della guerra.
Perché il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile.
Se lei deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido dalla polvere di Uagadugu.
Anche noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le strade, moriamo in prima linea.
Risorgiamo dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua.
Non chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla verità.
La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada. La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi.
La verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni.
Santità, ora lei siede sulla cattedra di San Pietro.
Ma ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse. Non permetta alla Storia di scrivere che la Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta.
Faccia sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano. Che svegli la coscienza di cardinali e re.
Che echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme barattano il silenzio con l’influenza.
Che annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo.
Perché qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo.
Siamo figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko.
Portiamo le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra.
Abbiamo imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro.
E chiediamo: il suo papato camminerà con noi? Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame? Cristo nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte?
Perché se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona Novella ci resta da credere? Non lo dico con rabbia, ma con sacra urgenza.
Siamo un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si sta avvicinando, è qui. Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di dominazione straniera e di manipolazione spirituale.
E la Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le persone che sanguinano.
Non scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per la giustizia.
Aspettiamo le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è incarcerata.
Perché solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero.
Firmato: capitano Ibrahim Traoré, presidente della transizione.
Burkina Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità.”
Il 13 maggio 2025, Leopoldo Salmaso ha pubblicato una straordinaria traduzione di una presunta lettera indirizzata a papa Leone XIV da parte del leader del Burkina Faso, Ibrahim Traoré. Il testo, in attesa di conferme ufficiali dalla Sala Stampa Vaticana, si configura come una vera e propria preghiera-sfida, una “contro-omelia della liberazione” che attraversa mari, deserti e silenzi diplomatici per raggiungere il cuore della Chiesa cattolica.
La lettera, lunga, vibrante e densa di richiami simbolici, parte da una posizione di estrema dignità. Traoré, se davvero lui è l’autore, non scrive da una posizione di potere, ma dalla polvere del Burkina Faso, dove si muore per la libertà e si lotta per la sovranità. È un grido che fonde fede e resistenza, teologia e geopolitica, memoria storica e sfida contemporanea.
Traoré chiede se questo nuovo papa sarà diverso: se avrà il coraggio di chiamare per nome gli “Erodi moderni“, di denunciare la violenza economica e geopolitica che ancora oggi lacera l’Africa. Con parole che bruciano come una liturgia ribelle, smaschera il ruolo ambiguo giocato dalla Chiesa nella storia coloniale, accusa il silenzio complice sulle attuali dinamiche neocoloniali e sollecita una scelta netta. Stare con i popoli o con i poteri.
Non si tratta di un atto di ostilità, ma di un appello sacro. “Non le chiedo di essere africano – scrive – le chiedo di essere umano”. E poi, in uno dei passaggi più forti: “La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada. La redenzione senza riconoscimento è una mezza verità, e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni.”
La voce che emerge da questa lettera è collettiva e profetica. Parla non solo a nome del Burkina Faso, ma dell’intero continente africano. Parla con le parole dei martiri e dei rivoluzionari, portando nel cuore le lotte di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko. È un’evocazione potente della storia africana negata, delle speranze tradite e della necessità di un nuovo patto spirituale basato sulla giustizia.
Traoré invita la Chiesa a non restare neutrale, a non mascherare la diplomazia con il silenzio, a riconoscere Dio nella fame, Cristo nel caos e lo Spirito Santo nella lotta dei popoli. Non è solo una provocazione, è un’occasione di rinnovamento.
Se confermata, questa lettera rappresenterebbe uno dei documenti più significativi del rapporto tra spiritualità e decolonizzazione. In ogni riga vibra la richiesta di una Chiesa incarnata, che non si rifugi nella retorica, ma scelga di camminare davvero con i poveri, i ribelli, i dimenticati. L’Africa non chiede più permessi. L’Africa, oggi, interpella direttamente il trono di Pietro.
Resta da verificare l’autenticità del testo. Ma la potenza profetica del suo contenuto ha già iniziato a muovere coscienze. E, forse, anche qualcosa nei corridoi ovattati del potere.
CHI È IBRAHIM TRAORÉ
Il capitano rivoluzionario del Burkina Faso
Nato nel 1988, Ibrahim Traoré è un ufficiale dell’esercito burkinabé che ha assunto il potere nel settembre 2022, guidando un colpo di Stato contro il presidente di transizione Paul-Henri Sandaogo Damiba. Considerato uno dei più giovani capi di Stato al mondo, Traoré si è presentato come portavoce del popolo oppresso e simbolo della lotta contro l’influenza neocoloniale, in particolare quella francese. Sotto la sua guida, il Burkina Faso ha rafforzato la retorica sovranista e antimperialista, stringendo legami con altri Paesi africani guidati da giunte militari come Mali e Niger. Traoré è sostenuto da una parte consistente della popolazione, che lo vede come l’erede dello spirito rivoluzionario di Thomas Sankara. Il suo governo ha espulso forze francesi, sospeso media occidentali e promosso una narrazione panafricana di riscatto e autodeterminazione.