Referendum 2025 – Il Quorum Mancato e la Crisi della Democrazia Partecipativa
Maurizio Landini denuncia la responsabilità politica dell’astensionismo. Ma il fallimento del referendum apre una riflessione più ampia: la disaffezione popolare è l’effetto di una frattura culturale, sociale e politica sempre più profonda.
10 Giugno 2025
Esmeralda Mameli
“Non è una giornata di vittoria”,
ha dichiarato il segretario generale della CGIL Maurizio Landini al termine della tornata referendaria. I quattro quesiti sul lavoro, promossi dal sindacato, non hanno raggiunto il quorum: con un’affluenza ferma al 22,73%, la consultazione è naufragata, alimentando polemiche e analisi sulla salute della democrazia italiana.
Landini, parlando dalla sede del Comitato promotore, ha posto l’accento su due elementi centrali: la politicizzazione del referendum e la campagna astensionista promossa da alcuni esponenti di governo.
“Una certa politicizzazione non ha permesso di discutere dei contenuti. Chi ha chiesto di non votare senza neppure conoscere i quesiti ha una responsabilità grave”, ha detto il segretario, aggiungendo: “Non stanno attaccando la CGIL, stanno mettendo in gioco la democrazia”.
Al di là della dichiarazione ufficiale resta una questione aperta e complessa: perché sempre meno cittadini partecipano agli strumenti di democrazia diretta?
Il dibattito si è acceso rapidamente, diviso tra chi incolpa l’ignoranza popolare e chi denuncia l’abbandono educativo e culturale delle masse da parte delle forze progressiste.
Un intervento circolato molto in rete, e firmato da Vincenzo Costa, mette a nudo le contraddizioni della cultura di sinistra contemporanea, accusata di essere ormai confinata in ambienti accademici autoreferenziali, incapace di parlare alla vita concreta delle persone.
“La cultura di sinistra è diventata buona per fare dotti e inutili seminari in università, non per cambiare il mondo”,
scrive Costa, sottolineando il fallimento di una classe dirigente che ha smesso di formare coscienze e preferisce stigmatizzare l’astensionismo popolare anziché comprenderne le ragioni.
Il weekend del referendum ha visto anche la grande manifestazione pro-Palestina svoltasi in Piazza San Giovanni, a Roma. Un evento che avrebbe potuto rappresentare un segnale di risveglio collettivo, ma che secondo alcuni osservatori si è trasformato anch’esso in una passerella politica, in parte contraddetta dalla partecipazione di esponenti del PD a eventi filo-israeliani tenutisi in contemporanea, come al Teatro Parenti di Milano. Il corto circuito tra sostegno a Gaza e ambiguità nei confronti delle politiche di Israele ha acceso nuovi malumori, aggravando la percezione di incoerenza dei partiti progressisti.
Sul tema è intervenuto anche Giorgio Cremaschi, che su “Il Fatto Quotidiano” ha parlato di “messa in scena” riferendosi alla piazza romana, accusando il PD di tentare di recuperare consenso senza prendere davvero posizione contro l’occupazione e la violenza israeliana.
Tutto questo contribuisce a delineare un quadro desolante. La disillusione popolare nei confronti della politica non è solo una questione di “pigrizia elettorale“, ma il prodotto di una crisi profonda che attraversa istituzioni, partiti, sindacati e cultura. Il fallimento del referendum, come già accaduto in passato, non è solo una sconfitta per la CGIL o per il PD, ma il sintomo di una democrazia sempre più fragile, dove la distanza tra élite e cittadini è diventata abissale.
La vera posta in gioco, come ha ricordato Landini, resta la democrazia. Ma per rianimarla non bastano gli appelli al voto. Serve un nuovo patto sociale, educativo e culturale capace di riavvicinare il popolo alla politica. Per farlo, occorrerà ben più di una campagna referendaria. Servirà una ricostruzione dal basso, quotidiana, lenta, radicale.