“Antilingua”, cosa è costei?
Italo Calvino chiamava “antilingua” quel modo di parlare di determinate persone di campo politico, giudiziario o meno, che sfruttano parole per così definirle “andate perse” dalla memoria dell’uomo medio, dell’italiano medio. Quei termini in disuso che fanno apparire il discorso formato da un lessico elevato, quasi a livello di un poeta o un grande intellettuale, che creano una sorta di alone di mistero attorno a colui che cita determinate parole.
E la domanda sorge spontanea: con l’italiano di oggi, è possibile parlare comunque di un’altra forma di linguaggio, quello dell’antilingua?
A mio parere, con i modi di parlare attuali è alquanto banale parlare di una seconda lingua, perché si fa già fatica a capire la prima. A noi Italiani piace dimostrare di conoscere svariate lingue, quali l’inglese, il francese e così via, quando poi, alla fine, finiamo per dimenticare anche quella delle nostre origini. E dunque, antilingua si, se parliamo del campo giudiziario dove, e se non fosse così saremmo già arrivati alla fine, un linguaggio più ricercato non è mai abbastanza. Antilingua si, se parliamo del campo dell’istruzione, dove, almeno così dovrebbe essere, gli insegnanti devono, per l’appunto, inculcare qualcosa di coinciso ma altrettanto organizzato e corretto agli studenti.
Ma antilingua no, per niente, nel caso in cui parliamo del popolo, dell’Italiano medio. Siamo stati abituati male. Siamo stati abituati ad utilizzare un linguaggio fin troppo diverso dai nostri antenati. Basti pensare alle parole, numerose parole, che fino a qualche anno fa i nostri genitori non si sognavano di avere all’interno del proprio dizionario. Termini come “cesso” che fanno ormai parte del libero colloquiare e verbi come “sentarsi” che invece sono caduti in disuso, pur raffigurando qualcosa di più importante di un gabinetto. E’ il paese dell’antilingua nel vero senso della parola “contro la lingua”, e contro ogni altra cosa che potrebbe in un certo senso somigliare ad un modo di conversare che rimandi all’antica Italia.
Modificare le proprie abitudini è un bene, a volte, ma non sempre. Non intendo dire che l’antico italiano fosse migliore, né che bisogni utilizzare parole antiquate per sembrare più intelligenti, ma solo che, di tanto in tanto, servirsi di questi termini un po’ più ricercati non nuoce alla salute e favorisce una migliore autostima, la nostra lingua è pur sempre figlia del latino e del greco, e sembra che ciò non importi più di tanto ormai. Non è un caso, infatti, che lo stesso Calvino citi l’antilingua come la lingua delle persone di alto rango che, per creare senso di distacco con il proprio interlocutore ritenuto di livello più basso, colloquiano in quel modo per elevare ancor di più la propria conoscenza e buona considerazione di sé.
Ma questo è chiedere fin troppo ad un’Italia che, per come stanno andando le cose, non ha proprio tempo né voglia di essere ripresa anche in questi versi. E sperare in un “futuro migliore” non potrebbe mai funzionare, in quanto son già abbastanza i danni che il nostro paese ha bisogno di riparare col tempo, e la lingua in questione sarebbe solo un errore in più da risarcire ai nostri antenati, un errore che, purtroppo, nessuno vuol più pagare.
“Ogni parola ha un’anima
incarna un vissuto, il vissuto di chi l’ha usata e,
dunque, perdere una parola significa far cadere nell’oblio una pluralità di messaggi, cancellare sfumature e diversità”