Redazione

IO NON SONO ITALIANO

E, se il Sud si ribellasse?

Napoli, 12 settembre 2019

Di: Sergio Angrisano

Al Sud c’è la benzina più cara d’Italia le accise regionali in Campania pesano per 3,1 centesimi in più rispetto a tutte le altre regioni del nord. Una maggiorazione insostenibile, più che a Trieste, sette più che a Roma, sei più che a Milano. Con evidenti ricadute sui prezzi delle materie prime che viaggiano su gomma. Le associazioni dei consumatori fanno sentire la loro voce, proprio mentre la Lega impugna i dati della Banca centrale per chiedere salari più bassi al Sud.

La vera gabbia che imprigiona il Mezzogiorno si chiama disoccupazione. Da Napoli in giù la maggior parte delle famiglie vive con un solo stipendio, inferiore mediamente del 30 per cento rispetto ai redditi settentrionali.

La disparità di trattamento riservata ai napoletani dalle compagnie assicuratrici per la Rca auto è acclarata. Antonio Coppola, direttore Aci, ha più volte ribadito che «gli utenti motorizzati, ogni anno, sono costretti a subire salassi indecenti e crescenti». Le stangate si abbattono soprattutto sui giovani e sui motocicli. I premi medi più alti d’Italia si pagano a Napoli.

Poi ci sono le tasse locali. L’aliquota Irap di base della Campania, per esempio, è più alta che in Emilia Romagna. Il bollo auto? Caserta è fra le 5 città italiane dove si paga di più, Napoli è sedicesima.

Come vedete «le gabbie salariali esistono già: al Nord il reddito medio ponderato da lavoro dipendente è superiore di circa il 30.3 per cento a quello del Sud». Il reddito medio in Campania è di 17.010 euro annui; 5 mila euro in meno che in Lombardia, 3 mila in meno che in Piemonte e in Emilia Romagna.

L’analisi di Confapi Napoli dimostra che: «Se un’impresa chiede un prestito a una banca, paga tassi più alti rispetto alle aziende del Nord anche di 2 o 3 punti. L’impresa al Sud è sempre vista come potenzialmente insolvente. Il gap con la crisi si è allargato. Fare impresa al Sud costa il 20-25 per cento più che al Nord».

Il fronte aperto della cosiddetta questione meridionale, oggi, si snoda decisamente sull’equilibrio difficile della modalità di attuazione del federalismo. Come molti di voi sapranno, la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, ha ampliato gli ambiti di competenza delle Regioni (sanità, trasporto ferroviario regionale etc). Il testo varato dalla riforma del 2001, non potendo aprire conflitti con i principi fondamentali del nostro testo costituzionale, imponeva, all’art. 117 lett.m, di definire i cosiddetti Lep (livelli essenziali delle prestazioni). In breve, ogni cittadino dovrebbe avere garantiti dei livelli minimi dei servizi, opportunamente quantificati, onde evitare che un’attuazione non debitamente riequilibrata del federalismo conducesse alla creazione di divari maggiori tra i servizi fruiti dai cittadini di regioni diverse. Non va dimenticato che lo spirito della nostra Costituzione, ben illustrato nelle parole di Piero Calamandrei, era chiaro: non si può parlare di diritto e libertà dei cittadini quando questi siano sempre più spinti oltre la linea della povertà. Non si può parlare di diritti politici senza la garanzia dei diritti sociali. “L’ostacolo alla libera esplicazione della persona morale nella vita della comunità può derivare non solo dalla tirannia politica, ma anche da quella economica: sicché i diritti che mirano ad affrancare l’uomo da queste due tirannie si pongono ugualmente come rivendicazioni di libertà”. Invece, come evidenziato nei mesi scorsi dall’Ufficio studi della Cgia, il rischio di povertà o di esclusione sociale tra il 2006 e il 2016 è aumentato in Italia in misura rilevante, raggiungendo il 30% della popolazione. La metà delle persone interessate si trova al Sud. Cosa è successo dal 2001 a oggi? I governi italiani che hanno concretizzato il federalismo in Italia ben poco si sono preoccupati del riequilibrio in favore delle aree meno dotate di risorse. Come il Sud. Gli effetti di questo incremento dei divari, accentuatisi proprio nel primo quindicennio del secolo, si colsero nettamente nel 2014, l’annus horribilis in cui Svimez evidenziava una differenza di Pil pro capite tra Sud e Centro-Nord confrontabile con quella dei primi anni Cinquanta (Pil del Sud pari al 56,3% del Pil del Centro-Nord). Solo che in questo caso non abbiamo avuto un conflitto mondiale. È innegabile che le regioni del Sud abbiano trovato difficile gestire il supplemento di competenze a esse attribuite. Lo dimostra apertamente il crescente fenomeno della migrazione sanitaria. Un articolo apparso a gennaio 2018 illustrava quello che potremmo definire il paradosso della sanità: un meridionale spende all’anno per la sanità 1799€, un abitante del Centro Italia 1928€ e un abitante del Nord 1961€. A fronte di una spesa praticamente sovrapponibile, i servizi erogati dalle regioni sono assolutamente non confrontabili visto che, come evidenziato dal Censis, sono in 750.000 gli italiani che lasciano la propria regione per curarsi altrove ogni anno.

Ma, gli squilibri si evincono non solo nell’ambito della sanità: pensiamo alla diversa qualità e offerta del traffico ferroviario regionale, come ben emerge dai rapporti annuali di Legambiente denominati Pendolaria. In un Paese ideale sarebbe inammissibile dover scoprire che più marcatamente al Sud aumentano i disagi o si riducono al lumicino gli investimenti in formazione (scuola, università, cultura, ricerca) che sono, invece, il necessario impulso che affranca un Paese dalle spire della recessione. Controintuitivo, se si pensa che dovrebbe essere fondamentale rafforzare il capitale sociale per fronteggiare il cancro delle mafie. Per tacere poi dell’incredibile divergenza regionale degli investimenti pubblici.

La dinamica attuativa del federalismo fiscale induce un calo dei trasferimenti statali verso gli enti locali e quindi le regioni e gli stessi comuni sono costretti a pestare sul pedale delle imposte locali. Portando a situazioni paradossali in cui l’incidenza delle imposte nelle città del Sud risulta persino maggiore rispetto a quella osservata al Nord. Un recentissimo rapporto Ctp ha dimostrato, sfatando un altro luogo comune, che la pressione tributaria al Sud, in proporzione al Pil dell’area, è risultata in crescita nel 2016 e soprattutto superiore nel Mezzogiorno (34,1% contro 33,5%) per effetto delle imposte locali che al Sud raggiungono il 6.6% contro il 4.9% del Centro-Nord.

Infine, l’argomento principe dei sostenitori dell’attuazione federalista, il cosiddetto residuo fiscale, trova smentite nell’ultimo rapporto Svimez (2018) che mostra come i numeri debbano essere oggetto di riflessione e meditazione, prima di lasciare il timone al miope egoismo localistico: “20 dei 50 miliardi circa di residuo fiscale trasferito alle regioni meridionali dal bilancio pubblico ritornano al Centro-Nord sotto forma di domanda di beni e servizi”. Inoltre, la domanda proveniente dal Sud ha un effetto moltiplicativo sulle altre macroaree del Paese; la migrazione intellettuale dei laureati causa, al Sud, una perdita secca in termini di spesa pubblica investita in istruzione e non recuperata di circa 2 miliardi l’anno, mentre l’emigrazione studentesca comporta spostamenti di risorse per circa 3 miliardi l’anno. Questo conferma che l’interdipendenza economica rafforza il paese nelle sue componenti territoriali. Non capirlo o fingere di non capirlo è un’operazione pericolosa. Per arrestare questo divario dilagante tra Nord e Sud, CMI ha proposto un referendum consultivo, al fine di riequilibrare il gettito, che al momento la bilancia, vede pendere il piatto in un’unica e ben connotata direzione. Il Sud è stato condannato al sottosviluppo, consegnato alle mafie, alla disoccupazione, all’emigrazione forzata, alla negazione di un futuro per le generazioni a venire, alla povertà culturale, alla miseria sociale, all’annientamento dell’identità.  Per tutto questo, io NON sono Italiano

n.b. aluni dati e parti del presente articolo sono state ricavate da pubblicazioni e articoli di altri quotidiani

Sergio Angrisano

Direttore Editoriale - giornalista televisivo e scrittore