Scienza

Cronache di falsificazione scientifica

Come nel 1955 venne occultata la temperatura di depolimerizzazione del DNA e vennero gettate le basi per creare la fiction della Polimerase Chain Reaction e del test Sars-Cov-2

Napoli, 17 Aprile 2021

di: Roberto Serpieri

Oggi grazie alla divulgazione scientifica in tanti, anche molti bambini, sanno che il DNA è una lunga molecola che funge da supporto fisico in cui è memorizzato il codice sequenziale delle informazioni trasmissibili geneticamente, cioè di madre/padre in figlio, impacchettate sequenzialmente come in un nastro. La divulgazione si è soffermata molto meno sul modo in cui la molecola di DNA e la sua informazione possono essere danneggiate per effetto di agenti fisici come la temperatura. Poiché oggi viviamo in un’epoca in cui non si lesinano celebrazioni delle “magnifiche sorti e progressive” dei metodi di lettura dell’informazione genetica, ci sembra utile disseminare alcune evidenze scientifiche storicamente emerse sulla frammentazione termica del DNA, a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, che, seppur forse meno note, non riteniamo meno importanti al fine di una presa di coscienza collettiva sul modo in cui scienza, fede e fantascienza hanno interagito negli ultimi ottant’anni.

L’analogia con il nastro suggerisce che se la molecola di DNA si spezza in frammenti più piccoli l’integrità dell’informazione genetica può essere persa. Già i primi esperimenti di Oster nel 1947 sull’attività biologica degli acidi nucleici del virus del Tabacco [1] avevano confermato che questa intuizione è corretta. Sottoposte a opportune vibrazioni per alcuni minuti, soluzioni acquose di acido nucleico ottenute purificando il virus del tabacco mostrano al microscopio elettronico i filamenti nastriformi, di lunghezza pari all’incirca a qualche migliaio di Angstrom (lunghi quindi all’incirca un decimo di millesimo di millimetro o meno), essersi frammentati in segmenti più piccoli, divisi secondo tagli perpendicolari alla direzione longitudinale. Queste soluzioni con molecole frammentate mostrano una capacità di infettare altre foglie di tabacco (misurabile dalle lesioni necrotiche prodotte nel giro di alcuni giorni in altri campioni di tessuto della pianta) che si riduce esponenzialmente con il crescere del tempo di esposizione alle vibrazioni (a una frequenza di 9000 cicli per

secondo), riprova del fatto che non solo il DNA si può spezzare ma anche del fatto che quanto più si spezza il

DNA tanto più la macchina biologica, o il software biologico, non funzionano più.

Questa fragilità del DNA all’esposizione ad agenti fisici come le vibrazioni fa comprendere la ragione per cui in quegli anni a cavallo del 1950 diversi ricercatori si siano premurati di capire prima di tutto con quali opportune precauzioni andassero maneggiate le soluzioni acquose di queste molecole di DNA per non danneggiarle. E come si fa a capire quali sono le cause di danneggiamento e frammentazione del DNA? Come si fa sempre nella ricerca: con l’esplorazione, esaminando quindi tutte le varie possibili fonti di danno chimico e fisico, come ad esempio l’esposizione a vibrazioni soniche, e indagando le modalità con cui avviene il danneggiamento.

Raccontiamo un po’ delle ricerche di quegli anni sulla frammentazione del DNA. Innanzitutto, occorre il materiale integro da testare: l’integrità iniziale è indispensabile per misurare l’effetto di un qualsiasi danneggiamento. Il DNA integro veniva prevalentemente ottenuto in quegli anni purificandolo in soluzione acquosa salina con cicli di centrifugazione a partire da sorgenti biologiche molto differenti tra loro come, ad esempio, il timo di vitello, lo sperma di aringa o di stella marina, il virus del tabacco, colture del batterio hemophilus influenzae. Ad esempio, per la purificazione del DNA ottenuto dal timo di vitello, la centrifugazione è necessaria per separarlo dalle proteine citoplasmatiche e dalle altre molecole componenti il nucleo. La purificazione va realizzata con cura per evitare che il DNA si presenti frammentato o danneggiato già in partenza. Goldstein e Stern [3] sono tra i primissimi a compiere una accurata campagna sperimentale di analisi chimico-fisiche dedicata proprio all’esame delle caratteristiche della depolimerizzazione del DNA – depolimerizzazione significa appunto frammentazione della molecola – per effetto di vari agenti fisici e chimici. Il loro studio comincia con 115 grammi di timo di vitello (acquistabile da un macellaio) da cui purificano un grammo e mezzo di DNA che, in forma di sale del sodio precipitato grazie all’aggiunta di alcool etilico, ha l’aspetto di una piccola matassa di fibre bianche “simili all’asbesto”.

Una volta che si ha a disposizione la soluzione di DNA integro, due problemi si pongono di fronte al ricercatore per studiarne la frammentazione: (Problema 1) il “come frammentare” e (Problema 2) il  “come vedere e misurare la frammentazione”.

Sul “come frammentare” il DNA (il termine corretto è depolimerizzare), abbiamo già menzionato il metodo dell’esposizione a vibrazioni soniche su opportune frequenze. Altre cause di frammentazione/depolimerizzazione sono l’esposizione a radiazione elettromagnetica di frequenza ultravioletta o superiore, come i raggi X (i tumori della pelle ce lo insegnano purtroppo), e, ancora, l’uso di enzimi digestivi ottenuti a partire dal tessuto pancreatico come le desossiribonucleasi. A noi interessa qui in particolare ricordare cosa si scoprì in quegli anni sulla possibilità di frammentare il DNA con l’esposizione al calore sopra i 60°. La nostra attenzione si sofferma dunque sulla depolimerizzazione termica del DNA (questo è il termine tecnico preciso).

Veniamo adesso al Problema 2, “come vedere e misurare la frammentazione” del DNA.  Il microscopio elettronico (impiegato ricordiamo da Oster) è uno strumento di osservazione formidabile, ma certamente non è l’unico metodo disponibile e non è il metodo privilegiato di misura in questo ambito di ricerche. Cerchiamo di capire perché. Il pregio della micrografia elettronica è sicuramente l’apertura di una finestrella che offre una visione diretta e inequivocabile della particella frammentata. Il difetto è la visione “spot”: la finestrella apre una vista su un campione prelevato da un oceano di molecole ma non fornisce una visione dell’insieme di tutte le particelle, perché le molecole da vedere sono invero parecchie. Quante più o meno? Facciamo un conto spicciolo e approssimativo sul grammo e mezzo di fibre con cui Goldstein e Stern fanno i loro esperimenti. Considerando la loro stima di un peso molecolare di una molecola integra di DNA medio compreso tra 500000 e 1000000 unità e il contenuto di circa sei volte centomila miliardi di miliardi di molecole in una mole di una sostanza (numero di Avogadro), si contano non meno di un miliardo di miliardi di molecole in una soluzione acquosa ipoteticamente realizzata con tutto il grammo e mezzo di fibre di DNA. Quali altri metodi di misura e quali principi fisici è allora possibile impiegare per avere una visione di insieme?

Goldstein e Stern si basano su almeno altri quattro metodi di misura: la velocità di sedimentazione, la riduzione di viscosità, la birifrangenza, oltre a metodi di spettrofotometria. Diciamo il minimo indispensabile sulla velocità di sedimentazione. Molecole più lunghe e più pesanti sedimentano con maggiore velocità rispetto a frammenti di molecole più corte e più leggere. L’ultracentrifuga analitica, inventata negli anni Venti dal premio Nobel Theodor Svedberg, consente di accelerare gli enormi tempi richiesti per la sedimentazione di molecole così piccole. Con un sistema ottico di tipo Schlieren è possibile, grazie alla strioscopia, osservare nel corso dei minuti le nuvole di materiale in sedimentazione così da poter leggere la velocità di sedimentazione e osservare una proprietà importantissima: se le molecole sedimentano tutte con la stessa velocità oppure no. La sedimentazione delle molecole con uguale velocità descrive infatti una condizione in cui le molecole in soluzione sono tutte sostanzialmente uguali, esattamente cioè dello stesso peso e della stessa lunghezza, risultando ancora integre così come uscite dalla fabbrica cellulare dell’organismo vivente da cui sono state purificate. Questa condizione è detta “monodispersa”. Viceversa, se nella sedimentazione si osservano molecole che sedimentano con velocità differente ciò è indice del fatto che le molecole si sono allora frammentate disordinatamente in segmenti di dimensione e peso differente (condizione polidispersa).

Un’altra misura indiretta fondamentale è la viscosità. Goldstein e Stern osservano che l’esposizione a vibrazioni soniche (a seguito della quale, ricordiamo, Oster aveva potuto fotografare la presenza di frammenti residui di dimensioni molto più piccole) riduce progressivamente la viscosità della soluzione in modo irreversibile. Goldstein e Stern in effetti non devono inventare nessuna scienza nuova. Applicano a questa nuova macromolecola, il DNA, i metodi tradizionali della chimica analitica dei polimeri e degli idrocarburi, già ampiamente maturi e consolidati all’epoca. Facciamo un esempio semplice ma efficace. È nell’esperienza comune di tanti il comportamento di una vernice che con la polimerizzazione diventa più viscosa o con la diluizione diventa meno viscosa. Se la viscosità diminuisce in modo irreversibile dopo un certo trattamento, come l’esposizione alle vibrazioni o l’incremento di temperatura, il fenomeno è certamente indice di una frammentazione delle molecole che compongono la vernice.

Non ci resta a questo punto altro da fare se non riportare ciò che Goldstein e Stern vedono dopo gli effetti del riscaldamento con una parafrasi sintetica ma puntuale della parte del loro articolo sulla depolimerizzazione termica. Alcuni loro test preliminari mostrano che in una soluzione altamente viscosa di DNA la viscosità si riduce sensibilmente quando è riscaldata quasi a 100° e successivamente lasciata raffreddare a temperatura ambiente. Aggiungendo poi alcool etilico ottengono un “precipitato flocculento” ben diverso dalle fibre originali simili all’asbesto di cui abbiamo detto prima. Goldstein e Stern studiano poi questo fenomeno di denaturazione termica in maggior dettaglio. Quando le soluzioni di DNA sono riscaldate tra i 60° e i 100° per due o tre minuti e poi velocemente raffreddate a 30° con acqua e ghiaccio la viscosità relativa si abbatte considerevolmente. A

60° l’effetto è ancora blando, ma non appena si superano gli 80° la viscosità si abbatte drasticamente e diventa anche minore della metà della viscosità iniziale. Questo abbattimento irreversibile della viscosità è tanto maggiore quanto più ci si avvicina ai 100°. Quando una soluzione riscaldata per 15 minuti a 100° viene successivamente analizzata in ultracentrifuga si rileva la completa assenza di un profilo di sedimentazione, indice di un alto grado di polidispersione della dimensione delle molecole.

Queste osservazioni portano Goldstein e Stern a trarre una importante nota conclusiva nel proprio lavoro: tra i 60° e i 100° il DNA mostra una improvvisa caduta della viscosità. Questa caduta è irreversibile, cioè raffreddando nuovamente il DNA intorno a una temperatura prossima ai 30° la viscosità rimane più bassa. Sottolineano come, nonostante questo fenomeno sia simile alla denaturazione delle proteine, esiste una fondamentale differenza: diversamente della denaturazione termica delle proteine che, pur alterandosi con la temperatura di norma mantengono il proprio peso molecolare invariato, le molecole di acido nucleico sono rotte in tanti piccoli frammenti di peso molecolare minore quando sono riscaldate tra i 60° e i 100°.

I risultati di Goldstein e Stern hanno un considerevole valore scientificamente probante perché, oltre ad essere documentati in modo molto dettagliato e tale da rendere interamente ripercorribile l’esperimento, si basano su acquisizioni con metodi di misura differenti e indipendenti (ricordiamone 2 dei 4: il profilo di sedimentazione in ultracentrifuga e la viscosimetria) e su risultati tutti coerenti e consistenti tra loro.

Di un qualsiasi risultato scientifico è importante, tuttavia, ricercare sempre conferme indipendenti nelle pubblicazioni successive da parte di altri ricercatori. Ricordiamo allora alcune delle tante conferme dei risultati di Goldstein e Stern. Gli esperimenti del microbiologo Stephen Zamenhof, della pediatra Hattie Alexander e della patologa clinica Grace Leidy del 1953 [3] condotti sull’hemophilus influenzae sono in ottimo accordo con quanto trovato da Goldstein e Stern e rilevano una soglia termica ben precisa a 81°. Gli studi da loro riportati rilevano infatti che una soluzione acquosa a 23°di DNA purificato da colture di questo batterio mostra attività di trasformazione batterica stabile se viene preriscaldata a una temperatura in un intervallo tra i 25°e gli 80,9°. Rilevano però che quando il preriscaldamento raggiunge gli 81,4° l’attività di trasformazione batterica è già ridotta al 15% e al crescere della temperatura continua a decadere rapidamente a zero per diventare a 90° sostanzialmente nulla (osserviamo che, con alcune importanti differenze che non sottolineiamo qui, si produce nel DNA batterico un degrado analogo a quello che si produce nell’acido nucleico del virus del tabacco per effetto sonico). Fanno inoltre misure accurate della viscosità in funzione della temperatura e vedono che a partire dagli 81°, in parallelo, viscosità e attività di trasformazione batterica congiuntamente decadono esponenzialmente a zero.

Andiamo ancora alla ricerca di ulteriori conferme dei risultati di Goldstein e Stern sulla frammentazione termica del DNA. Nel 1954 Dekker e Schachman [4] eseguono misure di sedimentazione e di viscosità su una soluzione acquosa allo 0,005% di DNA a pH 7 portata a 100° per 15 minuti. Rilevano che la soluzione mostra una viscosità 30 volte più piccola di quella iniziale e una minore velocità di sedimentazione, pari a 3/10 della velocità della soluzione iniziale. Da questi dati stimano approssimativamente, presumibilmente in base al modello minimale di grave che sedimenta in un fluido viscoso lineare, la formazione di frammenti di molecole

100 volte meno pesanti delle molecole iniziali.

Nel 1957 Shooter, Pain e Butler [6] conducono ulteriori prove sul riscaldamento e pervengono alla conclusione che tutti i campioni di DNA da loro testati si frammentano sempre e comunque dopo un riscaldamento a 100° per 15 minuti.

Un coronamento teorico di questi studi con una stima numerica del numero di frammentazioni che si producono, in media, in un certo arco di tempo durante il riscaldamento giunge infine, a distanza di alcuni anni, da uno studio condotto da Jon Applequist nel 1960 [5] su un modello statistico cinetico molecolare di polimero a doppio strand. Il modello stima che già a 84° la degradazione termica del DNA porti nel corso di 10 minuti una molecola di DNA di peso molecolare 107 (ordine di grandezza comune agli esperimenti sin qui descritti) a spezzarsi, in media, 45 volte. Il modello è in preciso accordo con misure sperimentali indipendenti di degradazione termica ed enzimatica.

Questo rendiconto scientifico abbastanza lungo riepiloga la considerevole quantità di solide, acclarate, consistenti e ridondanti evidenze scientifiche di chimica, fisica e biologia sperimentale che già nel 1955 convincevano del fatto che era completamente assodato che il DNA riscaldato già tra gli 85° e i 90°, anche solo per un paio di minuti, si frammenta ampiamente e irrimediabilmente sotto il profilo dell’integrità dell’informazione biologica. Alla luce di quanto abbiamo sin qui raccontato a nessuno verrebbe mai in mente di riscaldare il DNA sopra gli 85°, ancor meno sopra i 90°, con l’idea di leggerne o preservarne l’informazione. È chiaro a tutti che questa azione sarebbe apparentabile (come traslato retorico) al prendere a martellate dei CD o dei DVD contenenti un software, rompendoli in vari frammenti, e pretendere poi che il software sia ancora funzionante.

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Questa prima parte della storia, speriamo, avrà interessato un bel po’ di lettori (e forse ne avrà annoiati altrettanti). Non se ne abbiano a male i lettori annoiati perché qui c’è il colpo di scena. La storia prende una piega completamente inaspettata a partire dal 1955.

È il 5 gennaio 1955. La rivista Biochimica et Biophysica Acta riceve una ‘short communication’ (una comunicazione breve) a firma di Paul Doty e Stuart Rice che tratta della denaturazione dell’acido nucleico deossipentosio [7] e si occupa tra l’altro dell’effetto del calore.

L’articolo esordisce con questa frase: “Un numero di osservazioni ha mostrato che gli agenti che generalmente producono solo cambiamenti fisici alterano la struttura nativa del DNA, biologicamente attivo, in una maniera analoga a quella delle proteine. Una ricerca precedente sull’effetto dell’acido ha dimostrato che la particella altamente estesa di DNA si è sostanzialmente contratta quando il pH è abbassato a 2.6 ma è rimasta di peso molecolare invariato. Vogliamo riportare qui che una situazione simile esiste relativamente all’effetto del calore”. Più avanti gli stessi autori scrivono “Un prodotto completamente denaturato, stabile è

ottenuto o con l’esposizione a pH 2.6 (con o senza urea) seguito da dialisi a pH neutro oppure  riscaldando la

soluzione neutra salina a 100° per 15 minuti. Questo prodotto ha lo stesso peso molecolare del DNA nativo.”.

I dati sperimentali nuovi contenuti nelle due pagine dell’articolo in fin dei conti non sono molti (12 dati numerici in tutto). Sono riportati da Doty e Rice in una tabella che all’inizio può apparire un po’ criptica. Studiandoli con attenzione si rileva che i fatti sostanzialmente nuovi sono una misura del raggio medio delle molecole per analisi nefelometrica, basata sulla misura dell’intensità della luce diffusa per effetto Tyndall, e il richiamo all’uso di una correlazione altamente precisa e generale proposta da (Mandelkern, Krigbaum, Sheraga e Flory (1952). Doty e Rice non riportano esplicitamente i conti da loro fatti in base ai quali desumerebbero un peso molecolare invariato. A dirla tutta, qualche elemento di perplessità sorge rifacendo separatamente i conti con i loro dati numerici. A partire dai numeri riportati da Doty e Rice, anche impiegando le formule di Mandelkern e coautori, non si riesce infatti a rilevare alcun elemento nuovo che consenta di poter desumere un peso molecolare invariato a seguito del riscaldamento. Per la precisione, se rifacciamo in due modi differenti i conti con i loro numeri desumiamo un peso molecolare 2,39 volte più piccolo oppure 5,87 volte più piccolo. Il nostro conto trova una conferma a distanza di due anni nel 1957, quando Shooter e coautori [6], che abbiamo in precedenza già citato, rifanno gli esperimenti con lo stesso campione di DNA e, conti alla mano, rilevano che quel campione di DNA dopo il riscaldamento ha molecole con un peso medio 2,3 volte minore di quello iniziale, sottolineando anche di aver trascurato possibili fenomeni di riaggregazione dei frammenti di molecole.

Sorge quindi una perplessità ancora maggiore, perché ci si rende infine conto che la lettura completa

dell’articolo di Doty e Rice pone il lettore (o induce ingannevolmente il lettore a credere di essere) di fronte ad

una evidenza unanime, discendente non solo dalle nuove evidenze descritte nelle due pagine ma persino da quelle

passate citate nelle due pagine, in cui il DNA apparirebbe stabile e integro sopra gli 85°. Sorge spontanea la

domanda: ‹‹Ma come anche le ricerche passate? Ma perché, il lettore non viene informato da questi due autori dell’esistenza di una minima parte della mole di evidenze (richiamate nella prima parte di questo nostro rendiconto) che nel 1955 già mostrano ampiamente come il DNA si frammenti termicamente ben prima dei

100°?››  La risposta è: ‹‹Assolutamente no››. Viene da domandarsi: ‹‹ma come è possibile? Doty e Rice citano persino nella bibliografia Goldstein e Stern (1950) e anche Zamenhof, Alexander e Leidy (1953)!››. Il fatto è che, in realtà, queste due ultime pubblicazioni sono citate da Doty e Rice ma in modo surrettizio: sono presenti in bibliografia e vengono richiamate in un punto del testo, ma viene sempre taciuta l’evidenza del DNA che si frammenta termicamente. L’argomentazione procede lasciando completamente all’oscuro il lettore della frammentazione del DNA al di sopra degli 81°.

Veniamo al dunque, e sarebbe stupido girarci intorno. Si chiama depistaggio scientifico, oppure lo si può chiamare falso filologico-scientifico, la sostanza comunque non cambia. All’epoca le fonti erano solo cartacee e non digitali e quindi si potevano surrettiziamente citare lasciando intendere il contrario di quello che fosse riportato nelle fonti a monte perché molte pubblicazioni non erano accessibili. I documenti importanti delle ricerche strategiche su cui si volevano lasciare all’oscuro i “non iniziati” rimanevano ben custoditi a chiave in un cassetto e non ne poteva essere fatto il download, come oggi è invece spesso possibile fare da Internet.

Siamo esagerati, stiamo mettendo su una caccia alle streghe? Veniamo al punto centrale che rende il sospetto

una conclamata certezza. Un vero studio scientifico ricerca la contraddizione e la mette in risalto per giungere

a un confronto o a una sintesi o, in mancanza di una sintesi, alla problematizzazione di una questione

scientifica. Se quello di Doty e Rice fosse un vero studio scientifico teso all’accertamento di una verità avrebbe

certamente messo in opportuna evidenza gli elementi di divergenza rispetto a quanto trovato negli studi precedenti. Fa invece esattamente il contrario: inganna il lettore alludendo a un’inesistente congruenza tra i loro

risultati scientifici presenti (possiamo aggiungere ora, conti alla mano, persino insussistenti) e risultati scientifici passati. Un falso studio scientifico con finalità di depistaggio deve necessariamente operare elusivamente e surrettiziamente e sarebbe ultroneo in questo nostro già lungo rendiconto sottolineare i tanti altri sottilissimi stratagemmi sintattici messi in campo da Doty e Rice per lasciar aperta la porta all’attenuante che le tante conclusioni peregrine nel loro articolo possano apparire come sviste ingenue di ricercatori dotati di scarso intuito fisico, o sottolineare ancora i numerosissimi altri elementi di depistaggio contenuti nelle loro due paginette del

1955 tesi ad occultare e confondere altri importanti elementi di conoscenza conseguiti sul DNA in quegli anni circa la separabilità degli strand di DNA con l’urea.

Un primo occultamento della temperatura di depolimerizzazione del DNA è dunque compiuto nel 1955. Il depistaggio intraprende vie ancor più sorprendenti qualche anno dopo (suscitando anche un certo interesse sotto il profilo goliardico e umoristico) quando nel 1957 Rice e Doty [8] nella Figura 7, giocando con gli errori sperimentali, riescono a far credere che sia possibile mantenere per mezz’ora il DNA a 100° (ovviamente Goldstein e Stern sono nel 1957 completamente desaparecidos nella bibliografia) oppure ancora quando nel

1960 Doty e coautori [9] narrano della possibilità di separare il DNA nei due strand complementari e di riuscire a fare addirittura ricombinare gli strand con il raffredamento a 25°. Quello che scrivono equivale a raccontare a una brava ed esperta massaia che si può lanciare una mela in un frullatore e vederla separata in due perfette metà come Guglielmo Tell. Ma non solo, il loro racconto sulla ricombinazione presuppone di riuscire a far credere alla massaia che rallentando il frullatore si possa vedere, come per magia, due mezze mele riappaiarsi e ricombinarsi una mela perfettamente integra. Qui il depistaggio e la finzione immaginifica raggiungono vette comiche di quella che potremmo definire una neoscienza dadaista.

La neoscienza dadaista si può spiegare in vari modi e con diversi argomenti psicologici o delle scienze sociali e politiche, ma l’ingrediente fondamentale è la fede del lettore/recipiendario. Il recipiendario deve essere fedele, deve devotamente credere che ciò che legge sia sempre vero per definizione, sorretto da una fede cieca nella metafisica delle immanenti “magnifiche sorti e progressive” e dalla certezza che in qualche remoto laboratorio  della  “Fortezza  della  Scienza”  (stiamo  citando  Mazinga)  qualche  scienziato  iniziato  riesca a

compiere quel miracolo impossibile che il senso critico del recipiendario vorrebbe ricondurre all’esame della ragione.

Alcuni ritengono che la scienza non abbia bisogno di fede, altri ritengono il contrario e tra questi ci sono Francesco Severi, Antonino Zichichi e anche il sottoscritto. Lasciando al lettore una riflessione individuale su cosa ci insegni questa storia al riguardo, sulla neoscienza dadaista possiamo invece sbilanciarci a dire che questa storia del passato ci insegna certamente almeno due cose: che la neoscienza dadaista ha bisogno di tantissima fede (certamente in questo caso malriposta), e che le sue vie sono finite.

Ci siamo certamente dilungati e non abbiamo rispettato il titolo. Da qualche altra parte racconteremo di come la storia dell’occultamento della temperatura di depolimerizzazione del DNA si ricongiunge con la PCR di Mullis e Faloona del 1987 (e qui di fede ce ne vorrà a quintali) e come ancora si ricongiunge con i cotton fioc infilati nel naso, ritenuti oggi da taluni fedeli della neoscienza dadaista metodo diagnostico valido per trovare non si sa ché (e qui di fede, come ci insegna il Dr. Fabio Franchi, ce ne vorrà a tonnellate).

Cercola, Campania, 07/04/2021

Roberto Serpieri

Bibliografia

[1] Oster, G. (1947). Studies on the sonic treatment of tobacco mosaic virus. The Journal of general physiology, 31(1), 89-102.

[2] Goldstein, G., & Stern, K. G. (1950). Experiments on the sonic, thermal, and enzymic depolymerization of desoxyribosenucleic acid. Journal of Polymer Science, 5(6), 687-708.

[3] Zamenhof, S., Alexander, H. E., & Leidy, G. (1953). Studies on the Chemistry of the Transforming

Activity: I. Resistance to Physical and Chemical Agents. The Journal of experimental medicine, 98(4),

373-397.

[4] Dekker, C. A., & Schachman, H. K. (1954). On the macromolecular structure of deoxyribonucleic acid: an interrupted two-strand model. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 40(10), 894.

[5] Applequist, J. (1961). A model for random degradation of two-stranded polymers and its application to deoxyribonucleic acid. Archives of biochemistry and biophysics, 95(1), 42-54.

[6] Shooter, K. V., Pain, R. H., & Butler, J. A. V. (1956). The effect of heat and x-rays on deoxyribonucleic acid. Biochimica et biophysica acta, 20, 497-502.

[7] Doty P., & Rice S. A. (1955). The denaturation of desoxypentose nucleic acid. Biochimica et Biophysica

Acta, 16, 446-448. (short communication di 3 pagine)

[8] Rice, S. A., & Doty, P. (1957). The thermal denaturation of desoxyribose nucleic acid. Journal of the

American Chemical Society, 79(15), 3937-3947.

[9] Doty, P., Marmur, J., Eigner, J., & Schildkraut, C. (1960). Strand separation and specific recombination in deoxyribonucleic acids: physical chemical studies. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America, 46(4), 461.

Note biografiche

Roberto Serpieri, MSc, PhD, Ing., Prof.
Ricercatore in Scienza delle Costruzioni.
Già professore di Scienza delle Costruzioni, Meccanica Razionale e Calcolo Strutturale agli Elementi Finiti presso l’Università del Sannio dal 2006 al 2020.
Da settembre 2020 in servizio presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, docente del corso di Statica
Autore di circa quaranta pubblicazioni tra articoli su riviste scientifiche internazionali peer reviewed, libri scientifici e atti di convegno nazionali e internazionali
Negli anni più recenti i suoi studi settoriali si corredano di ricerche tese al disvelamento di falsificazioni in diversi ambiti scientifici

Sergio Angrisano

Direttore Editoriale - giornalista televisivo e scrittore