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Brexit, dalla fuga di cervelli alla ritirata

Quanti di noi non hanno mai sentito parlare della comune “fuga di cervelli”, della continua emigrazione di giovani verso le mete più disparate, in cerca di condizioni di vita migliori, nonché di un’agognata meritocrazia, opportunità ed esperienza di cui l’Italia spesse volte si rivela mancante?

Nessuno, si suppone, considerando che i dati attuali riportano più di 550 mila italiani residenti nella sola Gran Bretagna.

Eppure, esistono segnali che ci portano ad ipotizzare che forse, presto o tardi, il flusso migratorio verso quest’ultima si esaurirà, e che, probabilmente, ci sarà un imminente ritorno alle origini di chi già vi abita da anni. Sintomi sono le considerazioni di base culturale che sono maturate nel corso dell’ultimo anno e che sono da ricondurre al referendum del 23 giugno 2016, data in cui si è dato avvio al processo della “Brexit”, vale a dire l’uscita dall’Unione Europea.

 

C’è chi ha visto in questa scelta la riscoperta e/o rinascita del proprio paese, chi, invece, non ha trovato un riscontro positivo. Fatto sta che, da quando il processo ha preso avvio, secondo l’articolo 50 del trattato di Lisbona, numerosi sono stati i cambiamenti importanti nel Regno Unito, che di riflesso si sono associati ad una nuova prospettiva anche per tutti gli altri cittadini europei, i quali, se prima erano “cugini”, da questo momento vengono visti come comuni extracomunitari.

Così, se l’iniziativa “Approdo” del Consolato di Londra aveva favorito l’assistenza ai nuovi immigrati, la Brexit ha invece portato l’allontanamento di questi ultimi, giacché porta con sé nuovi provvedimenti scoraggianti per i neo-cittadini, come l’annullamento della garanzia del welfare per i primi quattro anni di residenza o il rimpatrio per chi si dimostra disoccupato per un tempo maggiore di sei mesi.

 

Sostanzialmente, la Gran Bretagna non è stata la prima ad ipotizzare che il flusso migratorio non fosse totalmente positivo per il benessere del paese – già prima infatti Germania e Svizzera avevano rivolto le proprie osservazioni nei confronti di questa tematica delicata -, ma, a differenza degli altri, il territorio britannico rappresentava forse la meta più ambita e più ricercata, in particolar modo dai nostri connazionali, che trovavano in essa un’àncora di salvezza da una condizione che li rendeva schiavi della mancanza di opportunità concrete e/o persino di un semplice impiego.

La visione è dunque quella di una vera e propria lotta al cambiamento, che non ha più per protagonisti i, per i più eccessivi, 1200/1400 £ richiesti per un appartamento, quanto piuttosto le angosce di migliaia di giovani che, privati anche di questa prospettiva che garantiva una via di fuga possibile, si ritrovano e si ritroveranno sempre più frequentemente ad avere a che fare con le catene di una schiavitù psicologica da cui sarà sempre più difficoltoso svincolarsi.

Chissà, magari un giorno tutto questo non avrà motivo di esistere, e parleremo solo di un frangente della storia in cui gli italiani sentivano l’esigenza di espatriare che, ci auguriamo, non conosceremo più – e questa sarebbe la nostra più grande vittoria – ; magari invece il Regno Unito riaprirà le proprie braccia ad una popolazione teoricamente extracomunitaria, ma in sostanza vicina e moralmente consanguinea, i cui “cugini” potranno continuare a donare parte della propria differente cultura, contribuendo a tener salda la fama di una Gran Bretagna aperta e cosmopolita, fattore che, da sempre, la contraddistingue e che, forse, è proprio la base della sua forza.